Una PAC che non piace all’agricoltura del Belpaese e soprattutto del Sud

CampiSta per entrare nel vivo a Bruxelles un serrato – e presumibilmente lungo – dibattito sulla nuove PAC, la Politica agricola comunitaria che negli anni a venire con una puntuale riforma dovrà regolamentare le leggi europee che governano il mercato delle produzioni e la stabilizzazione del settore primario dal punto di vista di incentivi e ridimensionamenti culturali. Un settore nel quale il previsto cambiamento potrebbe avere un prezzo molto sostenuto, paventato particolarmente iniquo per il fatto che si dovrebbe passare dall’attuale regime di assistenza al reddito, giudicato sufficientemente proficuo, ad un altro considerato di “mercato”, peraltro non ancora delineato ma che comunque, in ogni modo, porterà indubbiamente ad un assai temuto “salto nel buio” per le sopravvivenza dei piccoli produttori.

Nello specifico, da parte loro, le aziende soprattutto del Mezzogiorno d’Italia sono fortemente preoccupate, anche perché sino ed oggi non sono riuscite a darsi un’adeguata organizzazione di mercato, a parte qualche sporadica eccezione, per i drastici tagli previsti alle produzioni ed agli stessi vecchi incentivi. Dato che, anche se fino all’11 aprile scorso appariva difficile una sostanziale modifica al tessuto centrale della proposta avanzata del commissario Decian Ciolos tese alla riduzione del 12% delle totale spese agricola europea. In Puglia, ad esempio, con specifico riferimento alla provincia di Foggia la riforme sarebbe costata più o meno 60 milioni di euro su un plafond di 244, e il sostegno al reddito avrebbe subito una contrazione degli attuali 430 euro ai futuri 370.

Al riguardo vanno opportunamente evidenziate le dichiarazioni del vicepresidente della Confederazione italiana agricoltori, Giovanni Cere, secondo cui ci si trova davanti a mutamenti assolutamente epocali per determinate produzioni di punta della Capitanata, quale ad esempio quella del pomodoro da industria, una colture sulla quale difficilmente si troveranno produttori disposti ad investire, se passasse il suo titolo, con la nuove riforma, da 1.400 euro (abbastanza remunerativo attualmente) ai preconizzati 500-600 euro. In totale, ai primi di aprile, a Bruxelles erano stati presentati ben cinquemila emendamenti, con una forte incidenza italiana, per cambiare la riforma mentre rimane alquanto attivo un accentuato lavoro di “lobbing” portato avanti in particolare dalla Francia dichiaratasi contraria ed una nuove PAC che privilegiasse l’ambiente piuttosto che le produzioni. Infatti in un documento promosso appunto dalla Francia e firmato anche dall’Italia, insieme ad altri 13 membri Ue si chiede di innalzare dal 12 al 15% le quota di fondi a sostegno di produzioni specifiche, con un ulteriore 3% per le colture proteiche, considerato e pieno titolo un vero e proprio segmento strategico in agricoltura ma quasi del tutto ignorato nei Paesi europei, tanto che ad esempio l’Italia ne importa l’80%, del proprio fabbisogno.

Ed in proposito, dal canto suo, il ministro francese Stephane Le Foll ha tenuto a sottolineare che tale documento, voluto dal suo Paese, rappresenta indubbiamente una svolta storica in rottura con la logica degli ultimi 20 anni di riforme, e incontrandosi il 9 aprile scorso con il presidente delle Commissione Agricoltura, l’italiano Paolo De Castro, incaricato di trattare l’impianto definitivo delle riforma per l’Europarlamento, ha sostenuto che in uno scenario di progressivo livellamento degli aiuti, la possibilità di erogare almeno il 15% dei fondi a settori specifici rappresenta un elemento di flessibilità indispensabile anche per gestire eventuali crisi.

Comunque, anche se suscettibile di svariate critiche, bisogna pur riconoscere che per quanto riguarda specificatamente il Mezzogiorno d’Italia – tenendo in ogni caso sempre presente che la parola definitiva si potrà avere solo fra tre o quattro mesi – tutto sommato, per ora si può ben riconoscere che per l’agricoltura meridionale la trattativa, pur non piacendo a molti, non è poi andata tanto male: le tre colture principali, grano duro, ortofrutta e vino sono infatti da considerare in certo qual modo salve. Tanto da far riconoscere al parlamentare pugliese Sergio Silvestris che se le proposte avanzate – come già accennato – all’inizio dal commissario francese Dacian Ciolos avessero avuto partita vinta, tutta l’agricoltura del Mezzogiorno d’Italia sarebbe stata affossata; mentre con l’incisivo proficuo lavoro svolto dalla Commissione parlamentare, l’impostazione avanzata da Cialos è stata efficacemente stravolto e si è riusciti a salvare l’integrazione delle colture preminenti, quali olio e pomodoro, Salvo sempre possibili eventuali ripensamenti.

Tutto questo mentre per quanto riguarda più segnatamente il settore vitivinicolo resta sempre tra i produttori un certo clima di preoccupazione per la riforma della PAC, malgrado il giudicato positivo andamento della trattativa generale; infatti appare ancora assolutamente distinto lo squilibrio esistente tra le colture continentali e quelle prettamente mediterranee che si presentano svantaggiate. Tanto che proprio al recente Vinitaly il presidente di Confagricoltura Puglia, Umberto Bucci, ha dovuto affermare che mentre nello scenario attuale la vitivinicoltura regionale si evolve bene e con prospettive interessanti; è bene tuttavia non smettere di guardare con attenzione e preoccupazione appunto alla riforma della Politica agricola comunitaria per quanto riguarda il prossimo periodo 2015-2020, che ha nella vitivinicoltura uno dei problemi più scottanti da risolvere. In questo senso anche al Vinitaly la Confagricoltura nazionale ha sollecitato ai parlamentari europei l’esigenza assoluta di una corretta ed efficiente gestione del potenziale vitivinicolo. Infatti – ha aggiunto il presidente Bucci – il sistema di autorizzazione per i nuovi impianti vitati, così come proposto dal Consiglio dei ministri europei, suscita pesanti perplessità. Concludendo che il Consiglio ha proposto cambiamenti volti alla liberalizzazione, a partire dal 2019, mentre il Parlamento europeo è stato più garantista sui diritti di impianto, proponendo il mantenimento dello “status quo” fino al 2030; e Confagricoltura sostiene quest’ultimo, ha concluso Bucci.

Intanto va infine pure registrato che a metà dello scorso mese di marzo 2013 è stato concluso il lavoro dei ministri che pur con alcuni punti non particolarmente soddisfacenti, premia comunque l’attività svolta nell’ultimo anno dalla Commissione Agricoltura – come tiene a commentare il presidente Paolo De Castro – per la definizione di una politica che avrà un vero e proprio interessante ruolo nevralgico di sostegno, crescita e sviluppo di un settore centrale nella dimensione europea, ed ancor più in quella italiana, come quello dell’agricoltura: infatti proprio le imprese agricole italiane potranno mediamente contare in futuro su 380 euro ad ettaro contro gli attuali 404, al di sopra, quindi, di una media europea valutata intorno ad appena 263 euro per ettaro.

Roberto A. Raschillà

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