L'”Epitaffio”, monumento alla civiltà pastorale del Tavoliere

Epitaffio - FoggiaMolte costruzioni, delle quali sono rimasti ancora ai giorni nostri importanti e visibili resti, testimoniano compiutamente — come ricorda Carmine de Leo nella sua opera “Foggia, origine e sviluppo urbano”, edita con il patrocinio della sezione costruttori edili dell’Assindustria di Capitanata — la ricchezza acquisita dal Capoluogo dauno tra il XV e il XVII secolo con l’avvento della Regia Dogana e del commercio delle pecore e della lana. Furono, nel 1400, gli Aragonesi che con Ferrante I disposero il trasferimento da Lucera a Foggia appunto della Regia Dogana: una particolare istituzione preposta, sul tipo della “mesta” spagnola, alla transumanza delle greggi dai monti dell’Abruzzo verso la pianura Dauna.

La Regia Dogana, nello specifico, era stata istituita dagli Aragonesi per “sfruttare” i pascoli demaniali, aggiungendovi anche alcuni pascoli privati e obbligando, sotto pagamento di una tassa, i proprietari di armenti a far svernare le pecore nei territori soggetti alla stessa. L’importanza storica legata alla presenza di una tale istituzione, cui era collegato un Tribunale speciale, non sfugge e la città, a partire dal 1500, acquisterà sempre più caratteri commerciali e cosmopoliti.

La vecchia borghesia cittadina si arricchisce di un nuovo dinamismo attraverso il notevole incremento dell’interscambio commerciale legato alla pastorizia e ai suoi prodotti, soprattutto la lana che, nel1’antica Fiera di Maggio, rivitalizzata ora dalla presenza della Regia Dogana, è più che mai fiorente per lo scambio dei numerosi prodotti legati all’economia armentizia.

La lana veniva conservata in centinaia di fondaci sparsi per tutta la città, i cui proprietari erano spesso commercianti di altri paesi. L’afflusso di gente nuova corrisponde contemporaneamente all’afflusso di nuove ricchezze, alla costruzione di nuovi palazzi e all’estendersi — sottolinea ancora Carmine de Leo — dell’abitato fuori porta; estensione caratterizzata in un primo momento dalla presenza di conventi e chiese, tutti sorti ai lati della strada e del tratturo che da Foggia raggiungeva il Candeloro.

E se la tendenza all’estendersi della città verso nord-est e sulla via per Siponto e poi Manfredonia aveva fino ad allora caratterizzato lo sviluppo fuori dell’antico centro abitato normanno, lungo l’attuale via Arpi, già Piazza Pubblica o Piazza e via dei Mercanti, con l’istituzione appunto della Regia Dogana e la presenza dei tratturi Foggia-L’Aquila e Foggia-Ofanto, attraverso i quali avveniva il maggior flusso transumante, tale tendenza subirà tra la fine del 1500 e la prima metà del Seicento una radicale inversione: la città inizierà quindi ad estendersi lungo questi due tratturi.

Ed è proprio in quel periodo cherviene realizzato l’”Epitaffio” (chiamato dai foggiani in dialetto “U Pataffio”), un interessante monumento del quale, d’altra parte, si conservano notizie non tanto certe, che sorge ai margini della Città Vecchia, nell’attuale via Manzoni, sulla strada che porta in Abruzzo. Si tratta di una struttura più che unica per quel che vuole rappresentare, e davvero assai singolare ai giorni nostri, a forma di una sorta di grande “pilastro” a figura poliedrica sul cui pinnacolo mostra la statua di un regnante, forse Filippo IV o Carlo II; della quale di sicuro si sa, comunque, che venne eretta proprio nella parte terminale del tratturo che dall’Abruzzo conduceva sino a Foggia, per ricordare la reintegra dei tratturi disposta nel 1651 dal reggente Ettore Capecelatro.

L’”Epitaffio” sulla facciata che doveva guardare probabilmente verso la parte terminale (o iniziale, a seconda della direzione) del tratturo porta ancora ben visibile un’iscrizione epigrafica in latino, la cui traduzione è la seguente: “D.O.M. Durante il regno di Filippo IV, quando era viceré don Innico Velez de Guevara, Conte di Onatte e di Villa Mediana, questa via, larga sessanta passi, comoda per le pecore che d’inverno entrano in Puglia per raggiungere i pascoli ed attraverso essa tornano ad uscire, con comune ed usuale tratturo denominata, essendo in molti luoghi distrutta ed occupata, il rettore Capecelatro, consigliere regio Torelli, e con pieni poteri per ordine di S. Maestà delegato, esaminò, riparo e provvide che fosse riportata alla originaria condizione nell’anno del Signore 1651. Successivamente crollato per l’antichità del bronzo, i locali durante il viceregno dell’eccellentissimo don Andrea Guerrero De Torres duca di Medinaceli provvidero a farlo riedificare nell’anno del signore 1697”.

L’enorme stele (se cosi si può chiamare) segnava, quindi, il punto di arrivo e di ritorno laddove ogni anno — narrano gli storici — per secoli, attraverso i tratturi, uniche vie possibili per la transumanza, centinaia di migliaia di capi ovini, migliaia di equini e migliaia di uomini si sono trasferiti, nel mese di maggio, dalla Puglia negli Abruzzi e, in ottobre, hanno intrapreso la via inversa. Faticosa l’andata e faticoso il ritorno. Le soste giornaliere avvenivano a percorsi da un minimo di 15 chilometri ad un massimo di 20. Le tappe, durante il giorno, erano abituali; i punti di riferimento sempre gli stessi, vicino ad una grande masseria o a ridosso di un torrente: cioè, là dove era sempre possibile trovare l’acqua necessaria alla pulizia degli attrezzi, usati per mungitura e lavorazione di formaggi e ricotta.

Di notte, dopo aver piantato le reti, tese e sostenute da robusti pali, destinate ad accogliere le greggi, i pastori — ricordano ancora i cronisti dei tempi passati — scavavano nel terreno delle buche in cui accendevano i fuochi, quindi, una volta sistemati gli animali, mangiavano in rozze scodelle di legno un po’ di formaggio e di “giungata” e, talvolta, al posto della minestra di legumi o erbe, la carne di qualche pecora troppo vecchia per seguire il gregge, che veniva cucinata con sale e cipolla, senza alcun altro condimento. Poi ognuno si preparava, con delle foglie, il giaciglio sulla terra nuda;  unica protezione dal freddo e dalla rugiada notturni, qualche vecchio pastrano e Pombrellone che tutti, durante il giorno, portavano a tracollo sulle spalle, legato da una cordicella. In passato per ogni 1000 pecore si ritenevano necessari dai 7 ai 10 pastori, cui si aggiungevano altri lavoratori; cosicché, per ogni impresa di 15-20.000 capi erano necessari non meno di 150-200 persone.

Il numero dei capi ovini transumati raggiungeva i due milioni: un vero popolo di nomadi che si trasferiva dall’Abruzzo alla Capitanata. E nella zona dove sorgeva l’”Epitaffio” si svolgeva poi la Fiera di Foggia, il più importante appuntamento del Regno di Napoli, dove i pastori abruzzesi vendevano le loro lane e i loro “caci” alla gran copia di “forestieri” che convenivano a Foggia per i loro acquisti da ogni parte d’ltalia e anche dalla Francia e dalla Spagna.

L’”Epitaffio” (per il quale non è fuori luogo ricordare oggi i versi dell”’Alcione” di Gabriele D’Annunzio nel quale si descrive la discesa dei pastori abruzzesi nella pianura di Foggia: “E vanno pei tratturo antico al piano, quasi per un erba! ?ume, su le vestigia degli antichi padri”), attualmente, abbandonato a se stesso, fa “bella mostra” del degrado che colpisce la parte più antica e nello stesso tempo più pregna di storia e di cultura della città di Foggia. Mentre, invece, potrebbe essere ridato agli antichi splendori, per tornare ad essere uno dei più importanti monumenti alla civiltà pastorale del Tavoliere di cui abbia potuto vantarsi il Capoluogo dauno, testimonianza indiscussa dell’antico grande passato mercantile e dei gloriosi trascorsi economici, politici, storici e sociali di Foggia.

Roberto A. Raschillà

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